VANVERA

Istantanee di quarantena

di Eleonora Boscariol | Fotografie: Paolo Burato

Forse nel mio subconscio ho sempre desiderato una pandemia.
La pandemia è un po’ come il Sublime di Friedrich Schiller calato nella mediocrità della vita quotidiana: qualcosa che ci terrorizza e “nella cui rappresentazione la nostra natura sensibile riconosce i propri limiti”, ma al tempo stesso esercita fascino sulla nostra natura razionale, che di fronte al limite avverte la propria superiorità. La pandemia è spaventosa e attraente, un oggetto “contro cui soccombiamo fisicamente, ma su cui ci eleviamo moralmente, vale a dire in virtù delle idee”.*
Sguazzerei volentieri a lungo nelle speculazioni filosofiche, ma poi nella pratica il Sublime è qualcosa di semplice, come i film splatter, da coprirsi gli occhi per la repulsione eppure non riuscire a distogliere lo sguardo dallo schermo. Come ciò che accade di fronte ai corpi deturpati e alle violenze: proviamo avversione, non vorremmo trovarcele mai di fronte ma istintivamente catturano la nostra attenzione. È l’attrazione malsana per le disgrazie, degli altri. Perché in qualche modo lo schifo del mondo ci appaga, accende i campanelli d’allarme delle nostre coscienze assopite, ci ricorda quanto siamo niente di fronte a tutto e, di conseguenza, ci responsabilizza. Lo stesso fa la pandemia.

Il mondo, fuori dalla bolla domestica, lo si immagina simile al set di Contagion, in cui però ad ammalarsi e morire non è una Gwyneth Paltrow impallidita dal trucco di scena, ma il nonno di un amico, la vicina di casa, l’infermiere in prima linea che guadagna milletrecento euro al mese. Il numero degli infetti sale giorno dopo giorno, aumentano i morti, le terapie intensive sono al collasso.
L’Oms dichiara la pandemia e un giorno, all’improvviso, ti dicono che il tuo Paese è zona rossa e che tutto si deve fermare. Non puoi più uscire di casa o andare al lavoro, né fare una passeggiata al parco. Passano le camionette della Protezione Civile e gli altoparlanti invitano ossessivamente i cittadini a rimanere in casa: per quanti hanno vissuto la guerra è di certo l’eco di un ricordo atroce, lo scalpiccìo della storia che insegue le sue prede innocenti mutando di forma.
Tutti in fila all’ingresso del supermercato, si entra a scaglioni per non sovraffollare. Distanza di sicurezza, mascherine, mani di lattice e disinfettante, assalto ai generi di prima necessità, panico. Si svuotano prima di altri gli scaffali della farina e del lievito di birra. A quanto pare gli italiani trovano conforto, e conferma della propria identità collettiva, nell’amore incondizionato per la dea pizza. Tutto sembra surreale e provoca smarrimento. Le nostre vite da podisti in marcia, le corse contro il tempo, la frenesia del vivere contemporaneo, tutto bloccato di colpo in barba all’acido lattico che rischia di accumularsi nel nostro corpo e nella nostra mente. Siamo sospesi, nel tempo di mezzo tra la vita di sempre e quella che non avremmo mai pensato.
Uno scenario orribile eppure carico di fascino, di occasioni, di riscatto e di bellezza. Sublime.

Rifletto, dal micro appartamento di quarantacinque metri quadrati senza giardino in cui sono costretta. Io, abituata a scalare montagne, lavorare a contatto con la gente, pianificare viaggi. Io che dopo anni di combutta con me stessa mi ero infine abituata alla vita degli adulti, a conciliare doveri e piaceri in una routine segnata dalla scarsità di tempo libero e dal frequente burn out. Una quotidianità che mi ha spesso fatta sentire inadeguata ma di cui sono diventata diligentemente schiava, proprio come richiesto dal codice sociale entro cui ho consapevolmente scelto di fissare la mia residenza.
Stavo facendo del mio meglio, ma poi è arrivato il virus, che ha spostato ancora più in là l’asticella della mia capacità di riflessione. Perché questo virus sta facendo una cosa sopra tutte le altre: ci sta regalando infinito tempo per fermarci, per pensare e pensarci. Ci sta togliendo libertà di circolare nello spazio, per allenare la mente a muoversi più agilmente del corpo. Ci sta negando l’accessorio per farci godere del necessario. Accorcia le distanze percorribili obbligando la nostra vista a spingere più in là del naso. Questo virus, se hai la fortuna di non essere tra gli intubati, riassesta equilibri perduti, ristabilisce priorità, favorisce evoluzioni personali covate in silenzio.

Da quando sono in quarantena mi alzo alle sette del mattino, senza bisogno della sveglia. Non importa a che ora io sia andata a dormire: all’alba ho gli occhi sbarrati e mi sento più riposata che mai. Non è insonnia, è voglia di stare vigile, per captare e assorbire tutto ciò che si muove nell’immobilità apparente del mondo. È voglia di non avere rimpianti, perché questo tempo sospeso, sappiatelo, non tornerà. Non torneranno le persone che siamo in questa vita al rallentatore e non torneranno le opportunità che la lentezza ci offre. Non tornerà il valore che sta acquisendo il nostro microcosmo casalingo e la maniera in cui scegliamo di abitarlo. E i miei pavimenti, non torneranno così puliti, il mio cesto della biancheria così vuoto, no di certo. Non tornerà mai tanto tollerabile la pigrizia con cui il caffè esce dalla moka la mattina, che tanto non abbiamo orari da rispettare, treni da prendere, badge da timbrare.
Un giorno usciremo di nuovo e a quel punto chi l’ultima volta abbiamo salutato col maglione di lana lo ritroveremo in maniche di t-shirt. Tutto ricomincerà a correre veloce, distratto, mai pieno, mai afferrato e sempre solo sfiorato. Non saremo più sospesi su un baricentro improvvisato di affascinante incertezza, ma di nuovo obbligati a gravitare pesantemente su un percorso già battuto e lineare. Allora ci guarderemo indietro e della pandemia avremo forse nostalgia. Perciò vorrei ricordarla come si fa con gli album di famiglia, le scatole dei ricordi in cui si custodiscono i biglietti dei concerti, come nei diari segreti della’adolescenza. Che a riguardarli dopo anni ti rendi conto di quanto hai imparato e di come ti sei evoluta nel tempo.

Il virus mette distanza e crea vuoti. Tra il nostro corpo e quello degli altri, tra il nostro tetto e i tetti degli altri.
Che sapore avranno i contatti, dopo? Come vivremo gli abbracci? Sentiremo la pelle degli altri più calda e vibrante? Sceglieremo più accuratamente chi toccare? Cosa metteremo di noi in tutto quello spazio vuoto che abbiamo lasciato tra i nostri contorni e il resto del mondo?
Secondo la fisica moderna persino lo spazio vuoto ha una sua curvatura. Vederla è difficile tanto quanto visualizzare la sfericità della terra osservando una mappa piatta. Ma quel vuoto esiste ed è necessario per accogliere. Credo che siamo così poco ricettivi nei confronti del bello autentico, noi esseri umani della metà globalizzata del mondo, perché non lasciamo mai abbastanza spazi vuoti nelle nostre esistenze, violentate dall’eccessivo esperienzialismo e da un’ossessiva mania di possessione, non solo di oggetti, ma anche di persone che “passavano di là” e così le abbiamo collezionate senza una ragione, infilandole a caso nelle righe fortuitamente vuote dell’agenda degli impegni.
Disseminare le giornate di vuoti, e di solitudini, lascia ampio respiro alla mente e fa germogliare idee: quel libro in attesa di essere letto da anni che ora non è più solo un soprammobile sullo scaffale ma ha guadagnato una sua anima e ti è entrato dentro, quel piatto mai cucinato che alla fine è uscito troppo salato, ma pazienza ci riproverai, tanto hai un sacco di tempo. Quel romanzo mai scritto che finalmente si insinua in silenzio tra i polpastrelli e la tastiera del pc. Quell’attenzione prima negata al tuo stesso corpo, alle espressioni sul viso delle persone che ti vivono accanto ogni giorno, e non le avevi mai guardate così bene. C’è sempre stata quella macchia sul muro? Hai sempre avuto quel neo sulla scapola? La gatta dei vicini, che mi corteggia in cerca di carezze, è sempre stata così grassa?

E così, slegate dalle briglie dei reggiseni e prive delle contraffazioni del makeup, spogliati delle divise sociali e dai lacci delle scarpe, in questa quarantena siamo semplicemente quello che siamo, la versione più autentica di noi. Facciamo i conti con le ricrescite, dei capelli bianchi e dell’anima, ci vestiamo di coperte in pile e mandiamo e-mail al capo indossando pantofole bucate.
Sperimentiamo un surrogato di vita sociale in video call senza mai aver voglia di affrontare l’inutile passaggio dal pigiama alla tuta, che tanto è uguale. Le persone della nostra esistenza precedente si tramutano in pixel su schermi piatti, che possiamo spegnere quando ci pare. Si azzerano le forzature, nelle abitudini come nei rapporti.
Facciamo ciò che ci va, mangiamo quando abbiamo fame e dormiamo quando arriva il sonno, lavoriamo secondo i tempi smart suggeriti dall’organismo, la mente si autoregola nella gestione del carico di impegni e spesso ci fa raggiungere più obiettivi e più velocemente rispetto a quando passiamo ore in ufficio chini su un progetto. Ci si industria come api operaie nell’alveare, si studiano alternative per non rimanere impantanati nell’ostacolo, si reinventano professionalità e si fa pace col digitale, irrinunciabile nemico amico dell’essere umano contemporaneo.
Il risultato della pandemia può essere sorprendente, ed è l’effetto del virus libertà, che quando colpisce l’apparato respiratorio, restituisce ossigeno e si diffonde come metastasi a tutto il corpo fino al cervello, come un cancro al contrario, una malattia della rinascita e dell’evoluzione.

Ne usciremo altri da ciò che eravamo prima, più consci di quello che ci serve per stare davvero bene e più generosi con noi stessi. Coraggiosi nel pretendere quella libertà che è stata in grado di rigenerarci, anche oltre il tempo della quarantena. Ne usciremo meno obbedienti, meno conformati e rassegnati e questo farà di noi delle mine vaganti, pericolosi esseri umani consapevoli di esistere, anime da nutrire. Forse dopo la quarantena avremo capito che dovremmo sempre trovare il modo di annaffiarci come giardini, anche e soprattutto in tempi di siccità. In the beginning is you, in the middle is you and in the end is you.
Perciò ho sempre desiderato una pandemia, almeno quanto desidero tornare a scalare le montagne, a vedere il mare, e a toccare i corpi delle persone amiche.

di Eleonora Boscariol | Fotografie: Paolo Burato

*Cito Del Sublime di Friedrich Schiller, ritrovamento dei tempi dell’università, reso anch’esso possibile grazie alla quarantena, che mi ha concesso il tempo di sistemare la libreria secondo il metodo Dewey.