VANVERA

Un’estate su Tinder

di Viola Ville
 
Premessa

Mentre le mie amiche partoriscono a settimane alterne, ho deciso di dedicare la mia estate a limonare, esattamente come previsto dalle disposizioni anti-Covid. Sono stata fedele allo stesso uomo per circa anni sei (6) finché la vita (o il mio carattere) ci ha diviso dopo mesi di logoramento e otto settimane sotto il marchio registrato lockdown®.
Siccome non faccio tennis, teatro, swing, inglese o bridge, per conoscere altre lingue è stato necessario iscriversi al famigerato Tinder, dove anche solo scorrere i profili è già un’indagine antropologica che spiega perché la gente vota di merda.
A un certo punto, dopo aver disdegnato centinaia di facce nel raggio di 80 chilometri, ho deciso che dovevo essere meno schizzinosa e abbandonarmi al whatever.
La mia unica foto-profilo mi ritrae in formato piano americano nel quale sono ben visibili le mie braccia grassocce e il fatto che non ho la 38, dalle due stringate righe di presentazione si evince che sono simpaticissima, ma forse lo pensa chiunque del proprio profilo. Segue una bella panatura di autostima quando si scopre che qualsiasi like tu metta corrisponde a un match, cioè un like che un ragazzo ha già messo al tuo profilo. Questo perché la simpatia e le braccia grassocce hanno un insospettabile appeal? Ovviamente no, perché hai una vulva. Tinder è un luogo 100% girl power in cui si avvallano le teorie sulla primoridialità istintuale di scegliere il maschio migliore del branco. Le lotte e le scornate però sono solitarie, sul social per cuori solitari, e forse l’evoluzione si è specializzata nel proteggerci dai selfie allo specchio con l’addominale tirato o il bicipite con tatuato, in numeri romani, il giorno in cui la Lazio ha vinto lo scudetto. I fascio-leghisti, ovviamente no grazie, ma è necessario che dall’altra parte si sia in grado di sostenere una grammar-nazi, per cui, Alessandro, sei carino coi tuoi baffi a manubrio, ma non aspetterò che tu ti dia “una spuntatina hai capelli”. Non ci incontreremo mai.
I nomi non corrispondono al vero come nei migliori articoli di nera sui giochi erotici finiti male.

 
Svolgimento

Metà giugno: dopo brevi e convenevoli messaggi, incontro il mio primo match dopo cena, a metà strada. Era appena piovuto, esistevano delle distanze sociali e le ho mantenute con Francesco, con cui ho parlato perlopiù di viaggi e capito subito che l’unico che ci avrebbe unito sarebbe stato quello di ritorno, ognuno verso casa propria. Era gentile, mi ha offerto da bere con quel modo di fare che esclude nel modo più assoluto che una ragazza debba pagare.
Avrebbe voluto rivedermi ma nel nastro trasportatore di opzioni, io avevo già agguantato un Isacco di Trieste che ho raggiunto in una piazzetta del capoluogo dove ho realizzato, fra l’altro, quanto mi manchi la città. Isacco è un designer irrisolto, lunare, egocentrico, privilegiato, insicuro e bono. Un gran bel figo, con poco da dire eppure convinto del contrario. Ho ragionato come un uomo. Cioè non ho ragionato.
Se si decide di dipingere le pareti di blu di Persia, il soffitto dev’essere nocciola, non bianco. Questo è l’insegnamento che mi sono portata a casa dopo un pomeriggio nel suo trilocale con i libri divisi per editore e un chilometro di dischi che ho ignorato per non dargli la soddisfazione di esserne meravigliata.
Quando sono tornata nel mio trilocale ho scoperto che si era rotto un tubo della vasca e alla vicina pioveva dal soffitto. I giorni successivi li ho dedicati alla ricerca di un idraulico e non è successo nulla di pornografico. Mi sono chiesta se la regola del nocciola valesse anche per altre tonalità, ho guardato il buco nelle piastrelle del bagno con le interiora di mattoni rotti e lana di vetro e mi sono detta: Ho altre priorità.
Alcuni giorni dopo è comparso Simon, che scriveva bene e con impegno, aveva contenuti interessanti da mettere al centro, autoironico, non bello e dannato come il precedente ma bello come il personaggio alternativo al bello e dannato di una qualsiasi serie teen ambientata in California. Più giovane di sette anni. Mi ha proposto una gita al parco un sabato pomeriggio. Dopo catechismo? Ho chiesto io per metterlo subito a suo agio. Quando ci siamo incontrati ho sbirciato nella sua macchina che era pulita in modo maniacale. Un Meridiano Mondadori di Hemingway sul cruscotto. Tracce di indizi calcolati. Poi scopro che Simon non è capace di stappare la birra con l’accendino, la me primitiva lancia un campanello d’allarme. Lui non demorde, apre la birra per vie traverse, apprezzo la soluzione laterale. Parliamo tutto il pomeriggio, il solito: libri, musica, serie, film, lavoro, tirocini. Scende il buio e ci spostiamo in un locale rustico pieno di tecnici e fonici che avevano appena chiuso un concerto. Simon ne sa anche di moda, parla delle sue Superga Panatta (credo), della passione per le polo da rugby, per i mocassini. Mi sento sciatta. Al parcheggio mi bacia maldestramente.
Nel corso della settimana successiva mi preparerà una playlist dal titolo Tinder dates, tender days. La giusta disposizione dei brani per seguire un flow sarà l’oggetto principale dei nostri messaggi. Ammiro l’impegno, comincio a sentire qualche scricchiolio quando mi confessa che non mangia verdure, che ha già deciso il nome dei suoi futuri figli, che vuole lavorare in un ufficio e guidare una Prius. Io penso che nulla andrà secondo i suoi piani ma non glielo dico, è bello avere ancora speranza nel futuro e nelle concrete aspettative.
Al secondo appuntamento, di nuovo al parco, scopro che guida come un ottantenne, anche gli ottantenni in Panda 4×4 ci sorpassano bestemmiando. Simon mi cita i film precisando anno di uscita e regista. Fa pagare sempre me. Mi fa notare che la sua polo Sergio Tacchini è la stessa di Demon Albarn in non so quale video dei primi 90. Dice che non va al fiume perché non prende il telefono. I suoi moti d’affetto sono disinfettati, distanti. Va a finire che esce di scena come un tecnico audio che sistema il leggio, in modo un po’ vile, forse già proiettato verso la prossima rosa che amerà senza cogliere. Mi sono fatta delle domande, mi sono detta che non valeva la pena sprecarsi a rispondere, del resto basta un pollice opponibile per dimenticare gli incompresi.
Nell’immobile agosto, tra ghiaccioli al tamarindo e un disgusto generale per un’estate senza una nuova isola da esplorare, mi scrive Giacomo. Abita poco distante, sono libera la sera? Mi preparo contro-voglia, mi dico che forse non ho più l’entusiasmo per conoscere un’altra persona, farmi studiare, trattenermi dal fare battute spudorate e ciniche, entrare nel ruolo di preda o cacciatore in base agli assist. Mentre vado verso l’appuntamento mi accorgo di aver messo un paio di jeans con la patta che si chiude male e di non ricordarmi come si chiama questo ragazzo del mercoledì sera. Mentre mi appresto a cercare sull’app il suo profilo, sento la sua presenza alle spalle, come un’aura. Giacomo è un meditativo che si lancia con la tuta alare. Ribatto che l’adrenalina finisce a un certo punto, mi dice che non lo fa per l’esperienza pre-morte ma per vivere appieno il momento presente. In quarantena è rimasto per dieci giorni al buio a meditare. Mi vengono in mente domande sciocche su come sia possibile farsi da mangiare o centrare la tazza del water. Mi trattengo. Il suo sguardo è fermo, e triste, vagamente lacerato da un’adolescenza che, mi dice, è trascorsa in una forra di rabbia e indifferenza. C’è qualcosa nel suo distacco che non comprendo del tutto e mi abbandono all’incognita, di farmi baciare per strada, di farmi convincere nella più tremula e carnale modalità ad andare verso casa mia salendo cinque piani a piedi per capire la misura del respiro che poi si farà più affannoso a letto, dove condividiamo il momento presente per poi fermarci a parlare nudi e scoprire da dove viene quella cicatrice sulla spalla. Quando ci rivediamo, qualche settimana dopo, si confida con lentezza. E fiducia. Lo trovo autentico, indipendente, libero. Io non sono così audace, rimango sul vago, forse è lui, quello dei due, che ha cose più interessanti da raccontare.
Ci sono stati altri incontri che per una serie di motivi mi sento di risparmiare a questo memoir, tipo un Nicola che raccontava un sacco di balle e mi ha parlato per mezzora del suo setto nasale deviato. O un Carlo con cui ho avuto da subito delle cocenti affinità elettive del tutto scorporate dall’interesse fisico.

 
Conclusioni in dieci punti:
  1. La maggior parte degli uomini non sa come gestire la disponibilità fisica della donna.
  2. Concedersi a degli sconosciuti è ancora considerato un atteggiamento da “zoccola”. Vedi punto 1.
  3. Gli uomini sono più romantici e fragili di quanto vogliano dare a vedere. Nessuno è stato inopportuno o sgradevole. Quasi nessun fumatore. In pochi interessati alla politica. Tutti mi hanno parlato dei genitori.
  4. Il gioco di Tinder è che c’è sempre un perdente, uno dei due non sarà più richiamato. C’è l’opzione due di picche, una botta e via ma una sana e consapevole libidine continuata è già considerata relazione. Allo stesso modo anche un’amicizia disinteressata non è tra le opzioni. E’ come se gli uomini fossero cresciuti con la tara che ogni donna, a un certo punto, si debba accasare. Edonismo è di genere maschile.
  5. Sono del parere che il sesso sia la cosa più divertente da fare gratis, in mancanza delle condizioni necessarie, ognuno ha una storia da raccontare.
  6. La vulva non ha la stessa attrattiva di un tempo, gran parte del desiderio si consuma nello sfiancante sentiero per ottenerla, una donna non dovrebbe permettersi di sceglierti apertamente come tramite per uno zozzo sollazzo. Di nuovo un ribaltamento dei “compiti” che torna al primitivo.
  7. Ho letto perlopiù donne quest’estate, (Ernaux, Woolf, Luiselli, Ballestra), anni, generi, temi diversi e la stessa nausea delle costrizioni. Ora si può dire quello che si vuole o desidera ma non si deve pretendere di essere né capite, né soddisfatte.
  8. Fare colpo su uno sconosciuto è comunque un atto di estremo narcisismo che forse racchiude il senso generale della nostra infrollita socialità.
  9. La prima impressione, che pare abbia una granitica importanza, si nutre in realtà di sovrastrutture del tutto soggettive. E’ difficile stupire qualcuno, è altrettanto difficile immaginare quali esperienze lo abbiano condotto ad essere quello che è.
  10. Nonostante i nostri tentativi per distinguerci dagli altri, la musica, lo humour, l’istruzione, la narrativa contemporanea e lo sforzo di evitare di produrre o provare affetto, sono i dogmi di una religione nella quale mi riconosco e che cerco nei miei simili.

Questo esperimento sociale patrocinato dalla Durex e dall’Oms terminerà con l’autunno, quando si accorceranno le giornate, si alzeranno le scollature e si azzererà la voglia di uscire. Il raccontino è firmato Viola Ville, che è il mio nome o forse uno pseudonimo, perché la mia estate su Tinder sfiora l’illegalità (limonare in tempi di pandemia, non limonare in genere) e ho bisogno di lasciare immacolata la mia fedina penale che di immacolato, è evidente, mi è rimasto ben poco.

 

di Viola Ville