LUOGHI

Cambogia: tra analogia e contrasto

di Valentina Avoledo

 
Le loro case sono teli di plastica sorretti da incerte canne di bambù. Dormono tra i binari e la staccionata. ll treno (a gasolio), strombazza ininterrottamente per svegliare i dormienti mentre esce dalla stazione di Phnom Penh, alle 7.30 del mattino. Dal finestrino si vedono le facce arricciate di chi si è appena svegliato. A trenta centimetri dai binari.

I bambini, come in tutto il mondo, salutano il treno.

La terra è rossa, sabbiosa, ti entra in bocca. Una ragazzina pedala composta sulla strada sterrata, ha una lunga treccia appoggiata sulla divisa di scuola, una camicia bianca con certi richiami alla marinaretta. È seria, concentrata a non cadere, ma sembra che l’incertezza sia il futuro che le sta attorno: il paesaggio di bidonville, una mamma che spazza l’ingresso di casa da una polvere perpetua mentre il figlio dorme sull’amaca.

Finita la città si intravedono gli acquitrini di ninfee e plastica in un matrimonio combinato tra natura e cultura. E infine la campagna di palme e banani e mucche bianche e anoressiche e nessuna altura. Qualche sparuto contadino chino e immerso fino alle ginocchia nell’acqua delle risaie. Macchie di lamiera, le solite capanne con pentole fumanti e stracci stesi ad asciugare.

Erano queste le campagne dei lavori forzati del regime di Pol Pot? Erano stati mandati qui gli abitanti della capitale dopo la presa di Phnom Penh da parte dei khmer rossi? Nel 1975 la città fu letteralmente evacuata per portare a termine il folle progetto di una una nazione di fattorie collettive. E di schiavi obbedienti. Abolite le scuole, gli ospedali, le banche, la moneta, ogni indizio di “borghesia”.

I presunti sabotatori venivano torturati e uccisi a bastonate con preferenza per chi portava gli occhiali. Un milione e mezzo di morti sterminati a picconate per risparmiare sulle pallottole, i bambini sbattuti a morte sui tronchi degli alberi. Fino a poco tempo fa la terra scricchiolava di ossa nei killing fields appena fuori Phnom Penh. Ossa senza nome ma nomi meticolosamente archiviati nei registri della morte, resoconti dettagliati come quelli trovati nell’S21 a Phnom Penh, l’ex liceo che tra il 1975 e il 1979 fu sede degli interrogatori dei sospettati di tradimento, vittime di disumane e ferali atrocità. Oggi il campo S-21 è il museo del genocidio di Tuol Sleng, che in lingua khmer significa “collina dei mango selvatici”. Alberi verdi e vivi in modo quasi erotico che hanno sentito le urla dell’orrore e ora il silenzio responsabile della pietas turistica, e dentro gli edifici le foto dei morti prima che morissero, in un bianco e nero fototessera che pare di vedere Yoko e John.

Eppure in Cambogia non è rimasto alcun presagio di morte, metà della popolazione ha meno di 18 anni, il Pil pro capite è di 900 dollari, più o meno quanto spende un turista occidentale in un mese di permanenza. A ogni angolo di strada un uomo chiede “Tuk tuk sir?” e partono le difficoltà per chiarire di preciso dove farsi portare, con spreco di gesti, mappe, immagini e un’unica cosa che non lascia spazio a incomprensioni: l’How much per la corsa. I mercati vendono maglie con elefanti e ciarpame sintetico, cumuli di merce tutta uguale: una cartolina nazionale riprodotta migliaia di volte in centinaia di luoghi. Nei ristoranti sono servizievoli e officiosi come in una specie di teatrino coloniale. L’uomo bianco è perennemente messo alla prova dalle fregature e dalla contrattazione, dal vespaio ininterrotto dei motorini, dai prevedibili imprevisti ma anche dalla disarmante gentilezza.

Quanto si assomigliano tra loro i nostri resoconti di viaggio? I templi di Angkor sono la tappa imprescindibile del paese, un sito da due milioni di visitatori l’anno. Centinaia ogni giorno si appostano con i treppiede per riprendere in time lapse l’alba alle spalle dei grandi ananas di Angkor Wat, le torri simbolo dell’intero sito archeologico, le stesse riprodotte sulla bandiera nazionale. I templi sono il lascito della dinastia khmer, un sublime deposito di macerie, bassorilievi, buddha sorridenti e alberi attorcigliati sui resti come tentacoli di un octopus. Le guide sono ammaestrate per suggerire il selfie perfetto o la stessa posa di Lara Croff nel film ambientato qui. Va per la maggiore l’opzione “panoramica” della fotocamera e le guide gentilmente insegnano e scattano.

Il viaggio è un percorso tra analogia e contrasto. Certe caratteristiche umane non hanno latitutini, gli occhi al cielo di un padre spazientito dai capricci della figlia: universale. Il giovane che aspetta la morosetta sul motorino e si controlla i capelli nello specchietto: universale. Lei scende profumata e leggera, sale sul mezzo e non lo cinge come farebbero a Roma o Parigi, ha un pudore antico e ingenuo ma gli stessi vestiti made in China del resto del mondo. Negli ostelli ci sono ragazzi che passano la giornata in piscina a bere birrette e a fare stories su Instagram. Il wifi è una connessione terra aria che ha più discepoli di qualsiasi altra religione al mondo. Come per il western crocifisso anche qui il più fatiscente dei cortili ha una pagodina che fuma di incenso e il buddha pacifico seduto dentro con un sorriso senza turbamento, nel trasognato nirvana senza fame, senza sete e senza nemmeno le gambe informicolate.

Dopo quindici giorni l’Asia ti entra addosso come la polvere delle strade, ci si abitua all’elegante fierezza delle donne, alla libertà dei bambini, ai roghi di immondizia, all’imprudenza degli autisti (di qualsiasi mezzo), alle trincee di plastica come cornici all’immacolato bordo mare, al valore dell’inchino. Eppure l’essenza di questi luoghi resta un mistero, le nostre abitudini ai letti ortopedici, alla cura maniacale dei neonati e dei pavimenti, si trasformano in vezzi ridicoli davanti alla semplicità del vivere. Un’amaca, una tettoietta, un paio di ciabatte, una manciata di riso e un pentolino. Fin quando la scolaretta in bicicletta che fa lo slalom nelle buche dello slum o forse sua figlia, o sua nipote, un giorno prenderanno un aereo e verranno a Venezia e faranno un giro in gondola e mangeranno spaghetti scotti e pizza mal lievitata a un prezzo lievitatissimo. E torneranno con l’impressione di aver solo confermato quello che già sapevano, nello smarrimento irrisolto del ritorno, in valigia un ponte di Rialto in marmo o un ventaglio di pizzo comprato a San Marco. Forse i ristoranti, i negozi, le fondazioni e i produttori di riso, farina e cemento, un giorno saranno gli stessi a Venezia e a Phnom Penh, se non lo sono già. Le città diventeranno stampi per magneti da frigo e i turisti i nuovi barbari come l’orda predatoria dei cinesi nella provincia costiera di Sihanoukville, brutalizzata dai cantieri. Stanno costruendo casinò in riva al mare, gli edili sono tutti cinesi e i clienti pure, giacché gli occidentali sono mal visti e i cambogiani banditi.

L’isola di Koh Rong Samloem risponde all’archetipo di “paradiso tropicale”, ma ci sono solo occidentali, backpackers, artisti, fricchettoni australiani che aprono bar arredati con bancali. L’altro versante dell’isola è quasi tutta di proprietà cinese. E i cambogiani hanno le loro baracchette, fanno le pulizie negli ostelli e vendono bananine. Tre mondi non comunicanti dove ognuno è impegnato a ritrovare il vialetto di casa.
 

di Valentina Avoledo